01 giugno 2007

Jam Session


Le jam sessions sono una peculiarità della musica jazz.
La maggior parte delle persone sa cosa siano: riunioni informali ed estemporanee di musicisti che si confrontano, spesso afterhours, su temi comuni o su improvvisazione. Questa definizione è abbastanza generica, lo riconosco, ma ciò che hanno significato nel jazz è molto importante.
Voglio fare una riflessione al margine di un libro molto interessante di Davide Sparti, Suoni Inauditi, ed. Il Mulino.

Il punto di partenza è la critica di Adorno al Jazz: secondo il filosofo (e qui cito Sparti) “il materiale di partenza del jazz è costituito da, o comunque derivato da, canzonette e musica ballabile avente funzione di intrattenimento, contrassegnato da uno schema metrico (in 32 battute) e armonico invariabile e banale, legato alla triade tema-variazione-tema”.[1]
La funzione di questa semplicità e presunta banalità sarebbe, secondo Adorno, quella di vendere il suo prodotto al cospetto di un target composto da povera gente.
Anche l’improvvisazione, tutto sommato, dice Sparti, è vincolata a strutture prestabilite, ritmiche, armoniche, di arrangiamento, che ne limitano la completa libertà.
A questa forte standardizzazione, il jazz ha reagito con quello che ancora Sparti chiama rendition, la capacità, cioè, di rielaborare la musica, attraverso costanti modifiche della sua struttura che, talvolta, ha coinvolto standard assai banali in cambiamenti radicali. Basti pensare al famoso brano My Favourite Thing che John Coltrane suonerà innumerevoli volte fino a rendere completamente irriconoscibile la melodia originale, oppure al Parker di I got rythm o al Davis di My Funny Valentine.

In ogni caso è innegabile che il jazz sia stata musica legata alle circostanze economiche della sua produzione.
L’analisi di Adorno, in realtà, sembrerebbe entrare in crisi con l’avvento del Bebop. E qui torniamo al libro di Sparti. “Il bebop rivaluta il potere di sorprendere del jazz, improvvisando qualsiasi cosa su un certo tema invece di attenersi, nel corso dell’assolo, a quanto avrebbe potuto ricordare il tema originale, rovesciando così la convenzione secondo cui il tema è il filo conduttore, l’elemento cardine, del jazz, ossia ciò che obbligatoriamente annuncia, guida e conclude l’improvvisazione. Questo modo di fare musica usando delle linee improvvisate che fungono da spunto tematico, o meglio ancora, da piattaforma per improvvisare, è in tensione con la musica organizzata e arrangiata delle compagini orchestrali, ed ha la sua sede privilegiata, del tutto ignorata da Adorno, in quella peculiare istituzione della comunità jazz che è la jam session”.[2]

La jam session, dunque, è un momento liberatorio che svincola i partecipanti da condizionamenti di vario tipo: è un istante ricreativo che permette di liberare tensioni, poter suonare quel che realmente si desidera, senza vincoli di esigenze commerciali, di arrangiamento, di tempo, di sound. Una istituzione fondamentalmente egalitaria, per un pubblico composto da musicisti .
Le jam erano anche delle vere e proprie sfide tra musicisti, i quali mettevano in gioco una parte del proprio capitale simbolico.[3]
Insomma, per alcuni musicisti la jam era una specie di rito purificatorio allo scopo di riscattarsi dai tentacoli della musica commerciale.

Sono profondamente convinto che il sistema entro cui si muove la musica, compreso il jazz, e tutta l’arte in generale, è interno al mercato e quindi non è garantita, per l’artista, la libertà assoluta.
Per quanto riguarda le jam session, basti pensare al rovescio della medaglia di quanto scritto precedentemente: esse servivano anche come trampolino di lancio, per mettersi in luce nell’aspettativa di qualche contratto piuttosto che per saggiare determinate linee compositive o improvvisative rispetto alle aspettative del pubblico ecc. insomma, una vetrina pubblicitaria in grado di decidere contratti di lavoro. Non a caso, la maggior parte delle jam sessions, soprattutto a New York, era controllata dal Sindacato dei Musicisti che decideva spesso luoghi e modalità di incontro.
Al giorno d’oggi, le jam sessions si sono molto diradate, sono venute meno contestualmente con l’emergere della crisi di identità del jazz. Il contesto generale è più “istituzionalizzato” e meno estemporaneo.


NOTE

[1]cft. Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006, pag 73
[2] cft. Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006, pag 80
[3] cft. Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006, pag 82

Bibliografia:
Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006

Discografia:
John Coltrane, My Favourite Thing, Atlantic 1960
Miles Davis, Round About Midnight, Columbia 1955
Charlie Parker, Jazz at the Philharmonic, Verve 1949.

Fotografie:
Cassandra Wilson fotografata da Bruno Bollaert

Post pubblicato su bebop

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