Jam Session

La maggior parte delle persone sa cosa siano: riunioni informali ed estemporanee di musicisti che si confrontano, spesso afterhours, su temi comuni o su improvvisazione. Questa definizione è abbastanza generica, lo riconosco, ma ciò che hanno significato nel jazz è molto importante.
Voglio fare una riflessione al margine di un libro molto interessante di Davide Sparti, Suoni Inauditi, ed. Il Mulino.

La funzione di questa semplicità e presunta banalità sarebbe, secondo Adorno, quella di vendere il suo prodotto al cospetto di un target composto da povera gente.
Anche l’improvvisazione, tutto sommato, dice Sparti, è vincolata a strutture prestabilite, ritmiche, armoniche, di arrangiamento, che ne limitano la completa libertà.
A questa forte standardizzazione, il jazz ha reagito con quello che ancora Sparti chiama rendition, la capacità, cioè, di rielaborare la musica, attraverso costanti modifiche della sua struttura che, talvolta, ha coinvolto standard assai banali in cambiamenti radicali. Basti pensare al famoso brano My Favourite Thing che John Coltrane suonerà innumerevoli volte fino a rendere completamente irriconoscibile la melodia originale, oppure al Parker di I got rythm o al Davis di My Funny Valentine.

L’analisi di Adorno, in realtà, sembrerebbe entrare in crisi con l’avvento del Bebop. E qui torniamo al libro di Sparti. “Il bebop rivaluta il potere di sorprendere del jazz, improvvisando qualsiasi cosa su un certo tema invece di attenersi, nel corso dell’assolo, a quanto avrebbe potuto ricordare il tema originale, rovesciando così la convenzione secondo cui il tema è il filo conduttore, l’elemento cardine, del jazz, ossia ciò che obbligatoriamente annuncia, guida e conclude l’improvvisazione. Questo modo di fare musica usando delle linee improvvisate che fungono da spunto tematico, o meglio ancora, da piattaforma per improvvisare, è in tensione con la musica organizzata e arrangiata delle compagini orchestrali, ed ha la sua sede privilegiata, del tutto ignorata da Adorno, in quella peculiare istituzione della comunità jazz che è la jam session”.[2]

Le jam erano anche delle vere e proprie sfide tra musicisti, i quali mettevano in gioco una parte del proprio capitale simbolico.[3]
Insomma, per alcuni musicisti la jam era una specie di rito purificatorio allo scopo di riscattarsi dai tentacoli della musica commerciale.

Per quanto riguarda le jam session, basti pensare al rovescio della medaglia di quanto scritto precedentemente: esse servivano anche come trampolino di lancio, per mettersi in luce nell’aspettativa di qualche contratto piuttosto che per saggiare determinate linee compositive o improvvisative rispetto alle aspettative del pubblico ecc. insomma, una vetrina pubblicitaria in grado di decidere contratti di lavoro. Non a caso, la maggior parte delle jam sessions, soprattutto a New York, era controllata dal Sindacato dei Musicisti che decideva spesso luoghi e modalità di incontro.
Al giorno d’oggi, le jam sessions si sono molto diradate, sono venute meno contestualmente con l’emergere della crisi di identità del jazz. Il contesto generale è più “istituzionalizzato” e meno estemporaneo.

NOTE
[1]cft. Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006, pag 73
[2] cft. Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006, pag 80
[3] cft. Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006, pag 82
Bibliografia:
Davide Sparti, Suoni Inauditi, Il Mulino-Intersezioni 2006
Discografia:
John Coltrane, My Favourite Thing, Atlantic 1960
Miles Davis, Round About Midnight, Columbia 1955
Charlie Parker, Jazz at the Philharmonic, Verve 1949.
Cassandra Wilson fotografata da Bruno Bollaert
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