01 aprile 2008

Finibusterrae

Sono due mesi e mezzo che manco dal Salento. L’ultimo ritorno coincise, fra le altre cose, con l’acquisto di un libro, Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini, di Antonio Errico.

Leggendolo, scopro punti di vista seducenti su vecchie questioni come quella del confine, che per certi versi, la mia terra incarna profondamente. Quel confine di civiltà spesso indicato dal mito e dalla storia di Akmet Pascià e la presa di Otranto. Così, Finibus terrae diventa il limes per antonomasia, il luogo dove finisce la terra e comincia l’ignoto. Ma così come esiste una pluralità di finibus terrae geografici, e nel libro ne sono accennati due, le coste accese di selvaggio della Bretagna, immortalate dai versi di Sylvia Plath, e quelle languidi del Salento, dette dai versi di Vittorio Bodini, così il finibus terrae diventa confine metaforico, limitare del pensiero, ove risiedono le arti del linguaggio, la seduzione della permeabilità, dove l’ignoto diventa voglia dell’incontro, desiderio di esplorazione. E così si giunge all’idea della scrittura come luogo di confine tra il conosciuto e l’incognito, alla scrittura che racconta quel che non conosce perché lo cerca, lo anela.


Qui finiva la terra: le estreme dita, nocchiute e reumatiche,
Rattrappite sul nulla. Ammonitori
Neri dirupi, e il mare che esplode
Senza fondo, o alcunché d'altro al di là,
Bianco di visi annegati.
Adesso è soltanto tetro, un ammasso di rocce
Soldati sbandati di vecchie, confuse guerre.
Il mare gli cannoneggia gli orecchi, ma loro non mollano.
Altre rocce nascondono i loro rancori sott'acqua.
Il precipizio ha un orlo di stelle, trifogli e campanule
Ricamate si direbbe da dita, prossime a morte,
Piccole al punto che quasi sfuggono alle brume.
Le brume sono parte dell'antico armamentario
Anime, arrotolate nel cupo lamento del mare.
Cancellano le rocce, poi le rifanno alla luce.
Salgono senza speranza, come sospiri.
Ci passo in mezzo, mi riempiono la bocca di cotone.
E quando me ne libero sono imperlata di lacrime.
Nostra Signora dei Naufraghi va verso l'orizzonte,
Le sue vesti di marmo sventolanti all'indietro come ali.
Assorto a lei s'inginocchia un marinaio di marmo
A cui s'inginocchia la donna vestita di nero
Pregando al monumento del marinaio che prega.
Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale,
E dolci le sue labbra di celestialità.
Non sente quel che dicono il marinaio o la donna
E' tutta presa dalla bella informità del mare.
Nastri color gabbiano svolazzano alla brezza
Accanto ai chioschi di cartoline illustrate.
I contadini li ancorano a conchiglie. 'Comprate'

Dicono i bei gioielli che il mare nasconde,
Piccoli gusci che fanno bamboline e collane.
Non vengono dalla Baia dei Morti laggiu'
Ma da un altro posto, azzurro e tropicale,
Dove non siamo mai stati.
Comprate le nostre frittelle, mangiatele ancora calde.

[Finisterre, Sylvia Plath]


L’uno e l’altro sono luoghi inesistenti. Sono figure del pensiero che trasformano la presenza in assenza e l’assenza in materia, in corpo che resuscita nel fenomeno di una visione. Sono luoghi della parola che da ogni parte confinano con altre parole. La loro sostanza è fatta soltanto del loro nome: Finibusterrae. E’ il nome che determina la suggestione e l’emozione, che attrae l’energia della parola, che provoca il gesto della scrittura.

Perché la scrittura adora il movimento lungo gli argini frananti o tra il pietrame di quelli già franati; predilige l’aggirarsi fra i resti di città scomparse, per luoghi fantasmatici; trova la sua condizione naturale sui luoghi di confine, ai limiti delle cose, alle frontiere della realtà e del senso; ricerca e inventa, o simula, un’esperienza di viaggio tra i territori dell’esistere e quelli del narrare. La scrittura abita a Finibusterrae. Finibusterrae è la residenza della scrittura. [Viaggio a Finibusterrae, Antonio Errico]


Vorrei essere fieno sul finire del giorno
portato alla deriva
fra campi di tabacco e ulivi, su un carro
che arriva in un paese dopo il tramonto
In un’aria di gomma scura.
Angeli pterodattili sorvolano
quello stretto cunicolo in cui il giorno
vacilla: è un’ora
che è peggio solo morire, e sola luce
è accesa in piazza una sala da barba.
Il fanale d’un camion,
scopa d’apocalisse, va scoprendo
crolli di donne in fuga
nel vano delle porte e tornerà
il bianco per un attimo a brillare
della calce, regina arsa e concreta
di questi umili luoghi dove termini,
meschinamente, Italia, in poca rissa
d’acque ai piedi d’un faro.
E’ qui che i salentini dopo morti
fanno ritorno
col cappello in testa.

[Finibus terrae, Vittorio Bodini]


Letture
Antonio Errico, Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini, Manni


6 commenti:

Anonimo ha detto...

PArlavo proprio prima di questa cosa con un amico. La scrittura e l'arte in genere intesa non come alfabetizzazione ma come condivisione di un vissuto sul limite di un sentire dove il confine diventa terra di scambio, un luogo vivo.
Tra l'altro ammiro molto il popolo del Salento, e anche di questo parlavo qualche giorno fa con amici.
Gente di un sud che fino a poco tempo fa era intriso di un tempo che si era fermato, un finisterrae che era solo fine, esistenza che non esisteva. Questa gente invece è riuscita veramente a superare quel confine, a rinascere in uno scambio, e l'ha fatto in modo intelligente. Oggi il Salento è un luogo di rinascita, un luogo che "restituisce". E tu, anche se manchi da là da qualche tempo, sei parte di tutto ciò. Come al solito grazie di farci partecipi di moti del sentire e del rielaborare in modo intelligente.
Sei splendido, poco altro da agigungere.
Lavocedelsilenzio alias Ori

Anonimo ha detto...

Spiegami il tuo atteggiamento nei confronti della vita,e insegnami.

Poppetta

Anonimo ha detto...

Non è mai abbastanza, ancora di più, ancora oltre...un altro cucchiaino nel mio caffè bevuto in piazza S. Oronzo, vi prego...di quello zucchero di pietra bianca.
Non c'è verso, non c'è testo, non esiste cielo che possa racchiudere la densa libertà, la forte passione, la violente luce di una terra furente, che in una vera contraddizione mi fa ricca del mio niente.
Salut TerraR.
:)

Rodolfo Marotta ha detto...

Orizzonti
Sei troppo buona. Io sarei più cauto con questi giudizi sul Salento. Quelli diretti a me, invece, me li tengo cari. Sono troppo vanitoso;-). In realtà, la realtà salentina è un po' più complessa e ricca di chiari e scuri.

Roberta
Il mio atteggiamento, Roberta, è improntato a dosi massicce di cinismo, per questo è meglio che non te lo spieghi. Cinismo e solitudine ma di quella così intimamente radicata nelle ossa che una bella famigliola da pubblicità non basta a cancellare del tutto.

Irene
Ma in piazza S. Oronzo, dove vai a prendere il caffè? Non dirmi da Alvino che è carissimo e poco rispettoso delle regole sanitarie... O vai all'Avio anche tu?

Anonimo ha detto...

TerraR...

Ora Alvino ha cambiato gestione, è molto più carino e "pulito", ma mi porto l'immagine negli occhi di un caffè buonissimo l'anno scorso a tre giorni dalla seduta di tesi...una giornata strana di resoconti di tiraggio di somme...ed io da sola che pensavo e sorridevo sapendo che da là a pochi giorni ce l'avrei fatta ;) ecco...dunque se penso alla mia lecce penso a quella piazza a quella irene...
Per il resto preferisco un caffè "All'ombra del barocco", praticamente appiccicato alla Liberrima :) vicino alla "mia chiesa"...
Un abbraccio
Irene

Anonimo ha detto...

ciao rodolfo, ti rispondo qui perchè in un certo senso i due scritti sembrano essere l'uno nell'altro: lo sconfinare della scrittura, anzi lo squinternare i confini con la scrittura è andare oltre il terminare delle terre ed è anche andare al di là del nostro limite.
Fin dove posso arrivare con il mio ricordo ho sempre pensato alla mia terra come se fosse qualcosa che avesse a che fare col silenzio, qualcosa che c'era, ma invisibile e inespressa ed è questo il modo in cui io sento di appartenerle. Siamo l'una nel limite dell'altre ci sfidiamo a vicenda.

ciao e grazie
lisa

p.s ho visto che parli di ani defranco...leggerò con piacere. lei è magnifica.