20 febbraio 2008

L'infinito istante

Un tuffo mirabile tra le storie della fotografia, emozionante e di inaspettati scorci visivi. Questo è il libro di Geoff Dyer, L’infinito istante, edito da Einaudi.

Non intende trattare l’argomento nelle sue attinenze storiche o artistiche né rispetto ad eventuali considerazioni estetiche del fare fotografia ma utilizza un approccio affine alla letteratura e in questo modo, come osservando numerose immagini e frammenti di memoria sparsi su un grande tavolo, l’autore va ricavando da essi infinite storie che saltando da un’immagine all’altra, da un periodo all’altro, finiscono per rivelare il filo conduttore di un’unica grande vicenda che prende corpo pagina dopo pagina.

Si concretizza, così, ai nostri occhi stupiti, il racconto preciso della storia dell’uomo.

Dyer ci parla della fotografia come racconto. Degli altri e di noi stessi attraverso gli altri. Tessera dopo tessera, costruisce un sapiente mosaico vitale, guidando il lettore in tutte le fasi di questa costruzione ardita. Risulta estremamente seducente il farsi guidare in questo processo costruttivo ed identificativo perché, alla fine, è proprio la fotografia che, emergendo come protagonista, si propone al lettore nella sua nobile valenza di una vera e propria costruttrice di una identità storica, al pari della musica, della lettura o della pittura. Emerge nella sua interezza la legittimità della fotografia di assumersi la responsabilità della Storia.
L’autore si muove con disincanto fra le immagini, con apparente inadeguatezza, scovando collegamenti nel tempo e nello spazio che, come un filo immaginario, cuciono i frammenti di immagini in un discorso che si dipana intrigante fra le pagine del libro catturando i lettori, in una sequenza di tracce, su sentieri infiniti per definizione.

Un uomo in cappotto scuro, con il cappello e le mani in tasca, cam­mina lento (spesso, anche se non sempre, lontano dalla macchina foto­grafica). Il cappotto scuro e il cappello fanno sí che sovente l'uomo sia solo una silhouette. Ritorna sempre nelle immagini di Kertész. Con que­sto non voglio dire che appaia solo nelle sue: l'uomo è presente anche nel lavoro di molti altri fotografi (malgrado tutto è lí per vedere), ma in quello di Kertész indugia, e con questo intendo in realtà dire il contra­rio: la macchina fotografica di Kertész indugia e si sofferma su di lui. È il classico emigrato, talvolta sembra che sia stato ritagliato da una foto ungherese e incollato sulla città di New York con le sue enormi archi­tetture moderne di ponti e magazzini.

Come di frequente accade per quei motivi che vengono associati in particolare alla maturità e agli ultimi anni di Kertész, queste figure erano comparse per la prima volta nei suoi lavori giovanili. Le incontriamo... fa­temi riformulare la frase: incontriamo questo personaggio - perché si trat­ta proprio di un vero personaggio, riconoscibile immediatamente dal so­prabito e dal cappello, due elementi che annullano qualsiasi altra caratte­ristica - nel 1914 a Budapest, mentre di notte cammina sul selciato solitario. Camus diceva che quando di sera vediamo degli uccelli sia­mo sempre portati a pensare che stiano tornando al loro nido, ma nel guar­dare l'uomo in soprabito di Kertész non si ha mai questa sensazione. Non c'è mai una finestra illuminata a fargli un cenno d'invito. No, sono le stes­se strade, il fatto di passeggiare - il soprabito a dire il vero - che hanno as­sunto la stessa sicurezza offerta da una casa. Anche allora l'uomo sembra un'ombra del suo sé precedente; sembra incapace di muoversi velocemen­te ed è impensabile immaginare che sia mai stato capace di correre; e pen­sare che Kertész iniziò a fotografare quest'uomo nello stesso periodo in cui realizzò quegli scatti potenti di sé e suo fratello, svestiti, quasi nudi, men­tre corrono, innamorati del movimento. Anche lí qualcosa in Kertész de­sidera nostalgicamente il futuro, un tempo in cui quelle giornate estive con il fratello sarebbero state un ricordo, che sbiadisce, nelle menti di uo­mini che camminano, anche nella neve, come se indossassero pantofole, percorrendo le strade come si percorre il reparto di un freddo ospedale, sofferenti di un disturbo senza nome la cui unica cura è continuare a cam­minare: «Un'eco di giornate m'ha raggiunto», scrive Kavafis:

La giovinezza che bruciammo, un sussulto...
Si attaccò alle mie mani
La lettera che ritrovai;
Finché la luce non languí, piú volte
La ripercorsi.

Per distrarre la mente mi affacciai
Al balcone, perché il fluire
Dell'amata città un po' mi lambisse,
E il trepidare dei commerci, la via...


Ciò che Kertész vede quando guarda fuori della finestra in strada è spesso questa sagoma che rappresenta i suoi sentimenti, il fatto di esse­re a New York, sradicato e incompreso. Le persone per strada, dirette ai negozi, sono emissari della sua tristezza. Ecco il destino del fotografo: camminare per strada o sedere su una panchina; o guardare dalla fine­stra la gente che cammina o che siede sulle panchine.
[Geoff Dyer, L’infinito istante, saggio sulla fotografia]

Letture
Geoff Dyer, L’infinito istante, saggio sulla fotografia, Einaudi 2007

Immagini
1-copertina de L’infinito istante, saggio sulla fotografia
2- Andrè Kertesz, Bocskay-tèr, Budapest 1914
3- Andrè Kertesz, New York 1954

Musica
Duke Ellington & John Coltrane, Impulse 1962.


5 commenti:

Anonimo ha detto...

Look here

Anonimo ha detto...

bellissima lettura rodolfo, da far venir voglia di leggere il libro.
grazie
lisa

Rodolfo Marotta ha detto...

Tu leggilo e fai in fretta. Mi farebbe molto piacere sapere che l'hai letto;-)

Anonimo ha detto...

interessante questo percorso tra la fotografia e le parole, comprerò di sicuro il libro, ti ringrazio Rodolfo per avermi dato la possibilità di incontrare questo Autore, soprattutto il suo soprabito. Amo le metafore. Ciao Lucia

Rodolfo Marotta ha detto...

Beh, la fotografia è un luogo di metafore, un luogo metaforico per eccellenza. E poi, oltre ai soprabiti ci sono letti sfatti e fatti, schiene, cappelli, finestre, ciechi e fisarmonicisti, corpi giovani e vecchi e sono ancora a metà.
Compralo, Lucia, anche tu!