19 novembre 2007

Io credo in quello che verrà

La sera dei saluti i Boro si erano riuniti nel cortile del capo villaggio e avevano recitato a voce bassa qualcosa di simile a una preghiera. Mentre pregavano, una donna con un sari rosso portava ripetutamente del cibo, frittelle di riso, alimentando il fuoco acceso al centro. Sfiorava le braci come una falena e spariva nell’oscurità. Il fuoco era l’unica luce. Un brusìo sommesso, seguito da un’improvvisa calma, aveva lasciato intendere che la cerimonia era finita, anche se nessuno si era mosso dal suo posto. Vishe aveva uno sguardo diverso: la partenza imminente di Filippo gli permetteva la confidenza del compagno d’avventura, e non più la deferenza verso uno straniero. Gli aveva spiegato che quella a cui avevano assistito era davvero una cerimonia religiosa e che a lui toccava anche la responsabilità del capo spirituale. Decine di pupille lo fissavano nella penombra.
Dentro il cerchio illuminato dal fuoco, Filippo si era sentito un attore comico al centro del palcoscenico, con tanto di scenografia a effetto, pubblico e spalla. Poi Vishe aveva rotto l’imbarazzo e gli aveva chiesto del suo dio, con serenità, con garbo. Filippo avrebbe voluto dileguarsi nella notte. Aveva cominciato a rispondere cautamente, cercando termini prudenti, per avere il tempo di battere in ritirata e chiudere il discorso senza traumi. Aveva ricevuto attenzione, invece, e anche un aiuto insperato nella scelta delle parole, nella definizione dei concetti. Vishe veniva spesso interpellato dalla platea e chiariva con frasi distese a che punto era arrivata l’esposizione dell’ospite. Facevano domande ingenue, le domande che da noi non sono più permesse. Filippo aveva capito di dover essere il più possibile sincero.

Aveva raccontato del suo non credere in un dio, dei suoi dubbi. Credo in questa terra. Si era ritrovato a dire, e nel fatto che bisogna accettare l’inspiegabile. Credo nell’etica dell’individuo e nella sua imperfezione, nell’amore per la libertà, nell’adattarsi agli accadimenti, perché da ogni cosa si impara. E credo che gli dei siano il segno della nostra resa, sogni che troppo spesso sostituiamo alla realtà… Si era arrestato, spaesato. Quando il silenzio seguito alle sue professioni di fede stava per diventare insopportabile, Vishe si era chinato verso di lui e gli aveva sussurrato in un orecchio che non c’era niente di strano, che il destino era il suo dio.
[…]
“Il destino è il mio dio”,
aveva ripetuto Filippo, appoggiando il bicchiere della grappa sul tavolino a lato e allungando le gambe muscolose.
“C’è una cosa più semplice? Dovevo proprio arrivare a quella notte mezzo indiana e mezzo nepalese per capire che in fondo credo a quello che verrà?”

[Laura Bosio, Le stagioni dell’acqua, Longanesi]


Credo profondamente nella terra, nella necessità di accettare l’inspiegabile, che non vuol dire subirlo ma cercare di comprenderlo. E credo nell’amore per la libertà e nella verità del mio domani. E in queste parole mi riconosco completamente.
Sentirsi parte della terra e del mare che deve unire e non farsi tragico sudario di vite perdute e dimenticate troppo in fretta, in nome di false emergenze mediatiche.
Dove sono, ora, i morti di Roccella? Sepolti nell’angolo più buio della nostra fragile memoria troppo colma di rumeni cattivi?
Eppure, il mare continua a chiamare con l’istinto dell’unità dei popoli, al quale mostriamo le spalle curve della nostra indifferenza.

Bibliografia:
Laura Bosio, Le stagioni dell’acqua, Longanesi 2007

Immagini:
1-Lewis Hine, 1908
2-Lewis Hine, 1920
3-Lewis Hine, 1931

4 commenti:

Rodolfo Marotta ha detto...

La Dichiarazione di Barcellona, apprezzabile nell’intento, ha sostanzialmente fallito. Nessun passo avanti è stato fatto verso quella che era tra le condizioni fondamentali: il progresso diffuso della democrazia. Sistemi totalitari o finto democratici continuano a dettare legge e con questi, i nostri governi trattano la sicurezza delle coste e delle migrazioni. I risultati sono drammatici sotto gli occhi di chi vuole vedere. L’aumento vertiginoso delle perdite umane, l’assenza di una seria cooperazione e le paure occidentali stanno producendo un picco di mortalità semplicemente inaccettabile e vergognosa, nell’assordante silenzio dei mass media, altrove impegnati.

naima ha detto...

io credo ad una specie di rete cosmica che ci unisce maglia dopo maglia: pensieri ed eventi ed azioni e uomini e cose.
Ed ogni nostro dire, e fare, ed agire modifica l'energia.
E'destino? E' deità? E' cielo? E' terra?
Non so.
E' solo una certezza che mi spiega anche tanto dolore.
:))

Rodolfo Marotta ha detto...

Tutto riconduce al nostro destino che è il nulla, credo.
Sono sufficientemente nichilista.
E l'amore? Cosa ci spinge alla ricerca dell'amore? L'istinto di sopravvivenza?
Mi sembra che su questo campo ci siano divergenze, tra noi ma forse entrambe le concezioni, seppur differenti, inducono a un approccio simile verso la vita.Cosmico. Anche io mi sento parte di un immenso.

naima ha detto...

terra
questo argomento secondo me è uno solo che ognuno chiama come vuole, come sente, come si riconosce.
Destino, va benissimo anche se nell'accezione comune destino porta dritto dritto al significato di casualità, mentre in natura nulla è casuale.
Il nulla contiene anche il tutto come il nero contiene tutti i colori.

Io so solo che l'importante è riconoscere l'immenso e l'ineffabile (quel che non si hanno parole per dire) e sentirsene parte.
Qualunque parola o filosofia si usi per descriverlo. :)