10 giugno 2007

Americanità


Accidenti! Quella roba che state suonando… Ti scritturerei di sicuro nella mia orchestra se la tua pelle non fosse così scura!

Caro mio, se non fossi così non sarei capace di suonare in questo modo.

(Jimmy Dorsey e Dizzy Gillespie)

A proposito dell’intervista a Furio Di Castri, pubblicata sul numero 40 di Jazz It e segnalata a suo trmpo sul blog Mondo Jazz, si potrebbe porre l’accento sulla peculiarità americana della musica Jazz in contrapposizione al jazz nostrano nel quale, ovviamente, questa componente manca.
L’aspetto che vorrei sottolineare è quello relativo alla formazione professionale dei musicisti e al loro rapportarsi col mercato della musica, categoria, quest’ultima, da intendersi in senso lato, comprendendo anche tutta quella gamma di modi di confrontarsi con l’industria discografica e i sistemi di fruizione musicale.
L’americanità dei jazzisti d’oltreoceano risiede, innanzitutto, nella loro formazione non istituzionalizzata, basata su un sistema per la maggior parte privato, a didattica centrifuga. Il sistema formativo americano, al contrario del nostro, basato sui conservatori e quindi fortemente centralizzato, è diversificato per target sociale e geografico; ciò contribuisce alla formazione di musicisti professionisti il cui background poggia su basi non omogenee.
Un secondo aspetto, storicamente, è il rapporto col mercato della musica che, nel caso americano, è da sempre basato su un sistema privato del tipo artista- agente- impresario. In pratica, è il musicista che, direttamente o attraverso un agente, tratta con l’impresario il suo ingaggio mentre l’impresario decide liberamente, in base a sue convenienze, quale artista scritturare.
A livello di estetica, questa modalità trasforma il musicista in “prodotto di sé stesso”, che si “propone” e che per essere più “appetibile” all’impresario deve essere in grado di sviluppare una sua “originalità”, uno stile, una tecnica in qualche modo, validi, differenti, innovativi, che lo rendano riconoscibile nel mercato.

In questo contesto, le jam sessions avevano, fra gli altri, lo scopo di fungere da vetrine per i musicisti in esse impegnati, ragione per cui, i referenti principali delle jam non erano pubblico o colleghi musicisti, quanto proprio gli impresari presenti nei luoghi ove queste jam sessions avevano luogo. L’aspettativa era che gli eventuali impresari presenti nel locale potessero, ascoltando i musicisti esibirsi in modo abbastanza informale e libero, quindi sincero, decidere di propendere per una scritturazione piuttosto che un’altra.
Molto differente la situazione in Italia dove la formazione, come già detto, è fortemente istituzionalizzata e omologata. Oltretutto è basata sulla musica euro colta e sulla centralità della notazione musicale. Questo sistema produce musicisti culturalmente impreparati al concetto di sound personale e tecnicamente impostati in modo simile. Se a ciò si aggiunge che gli spazi del produrre musica, i relativi finanziamenti sono a carico delle amministrazioni pubbliche ai vari livelli e alle istituzioni economiche si capisce come questo possa creare un sistema compatto e omologato che influisce sul sound dei musicisti in un modo talmente radicale da rendere necessaria una ridefinizione storica della musica prodotta. Ovvero, quello che a agli occhi di Furio Di Castri sembra un limite, in realtà potrebbe essere il sintomo di una trasformazione sintattica ed estetica della musica jazz.

Bibliografia:
Amiri Baraka (LeRoy Jones), Il Popolo del Blues, Shake edizioni tascabili 2007

Fotografie:
1-John Zorn (foto di Frank Schindelbeck
2-Charles Mingus (foto di Karlheinz Kluter)
3-Elvin Jones (foto di Karlheinz Kluter)

Post pubblicato anche qui


Nessun commento: